Scese la sera. Rama e i suoi fedeli compagni avevano camminato per tutto il giorno. E arrivarono nell’eremo del saggio Bharadvaja, il discepolo di Valmiki, non lontano dalla confluenza del Gange con lo Yamuna. Dopo aver offerto i dovuti rispetti al saggio, Rama gli parlò.
“La tua fama di saggio che ha i sensi sotto completo controllo è diffusa in tutto il mondo. Noi sappiamo che hai viaggiato molto e che conosci innumerevoli luoghi santi e incantevoli. Dove ci consiglieresti di andare a trascorrere i nostri quattordici anni di esilio? Qual’è la terra più bella che conosci?”
“Seguite le mie indicazioni,” replicò Bharadvaja, “e arriverete nei pressi di una collina chiamata Citrakuta. E’ un posto meraviglioso, ricco di tutte le bellezze della natura.”
I tre ripresero il cammino e in breve tempo scorsero Citrakuta. Era veramente bella come Bharadvaja l’aveva descritta. Lì c’era l’eremo di Valmiki e andarono subito a offrire i rispettosi omaggi al saggio. Poi decisero di costruire una capanna nelle vicinanze e Laksmana si dette subito da fare. In poco tempo la capanna fu costruita e cominciò così un periodo di serenità.
La maledizione di Dasaratha
Sumantra aveva accompagnato Rama fino all’eremo di Bharadvaja e poi da lì ritornò ad Ayodhya per dare le ultime notizie al re. Dasaratha era cupo, triste, assorto in chissà quali pensieri. Ascoltò il racconto dell’itinerario del figlio senza dire una parola. Poi si alzò e si ritirò nelle sue stanze.
Non riuscì a chiudere occhio. Davanti a sé si susseguivano miriadi di immagini e fra tutte il viso di Rama era predominante. All’improvviso sussultò: un ricordo gli era balenato nella mente e gli strappò lacrime cocenti. Ecco, ora ricordava il motivo per cui stava soffrendo così amaramente. Si alzò e chiamò la sua prima moglie, Kausalya, la madre di Rama. La fece sedere sul letto e la guardò, quasi volesse scusarsi per ciò che aveva fatto. Lei lo guardò con affetto, senza rancore.
“Sento il bisogno,” le disse Dasaratha, “di raccontare a te e a nessun altro una storia che mi accadde in gioventù. Non riesco più a tenerla per me solo. In realtà questo episodio lo avevo quasi dimenticato, ma ciò che è accaduto in questi giorni maledetti me l’hanno reso ancora nitido nella memoria. Ascoltami.
“Nella mia giovinezza io appresi l’arte di tirare con l’arco. Imparai così bene che potevo colpire un bersaglio solo ascoltando il suono prodotto da esso. La gente mi chiamava ‘colui che colpisce il suono’. Durante quei giorni commisi un errore imperdonabile, del quale sto ora scontando le reazioni. Era la stagione delle piogge. Un giorno andai a caccia, e quando il sole tramontò io continuai a cacciare. La notte era scesa, e io vagavo in cerca di una preda. D’un tratto sentii un fruscio che proveniva dal ruscello, un rumore simile a quello della proboscide di un elefante che beve acqua. Così pensai che si trattasse di un animale e scagliai una freccia. Ma non fu il barrito di un elefante quello che mi rispose, ma il grido soffocato di un uomo. Corsi sul luogo e lì, mortalmente ferito, vidi un giovane eremita.
“O re,” mi disse lui con un filo di voce, “io non so perché tu mi abbia colpito, ma ora sto morendo. Non mi preoccupo della mia vita, che è comunque effimera, bensì per i miei anziani genitori che non potranno sopravvivere senza di me. Tu sei crudele perché hai ucciso un eremita indifeso, ma promettimi di andare da loro e di dargli la notizia della mia morte.”
“Così il giovane asceta morì. Io corsi a cercare i suoi genitori e non ci misi molto a trovarli. Inorridii quando mi accorsi che non solo erano molto vecchi, ma anche ciechi. Quando diedi loro la tremenda notizia non dissero nulla, ma il dolore traspariva visibilmente. Poi eseguirono i riti funebri per il figlio e presero la drammatica decisione di rinunciare alla loro vita suicidandosi nella pira funebre.
“Prima di entrare nel fuoco mi maledissero:
“Un giorno anche tu proverai il profondo dolore di essere separato da tuo figlio.”
“Ora, ora la maledizione degli asceti diviene tragicamente vera.”
Dasaratha singhiozzava. Poi guardando la moglie disse quasi in un rantolo:
“Kausalya, io non posso sopportare il dolore della separazione da Rama.”
In quella angoscia Dasaratha passò la notte, ma il suo cuore non resse a tanta sofferenza, e allo spuntare del giorno si fermò.
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