Un giorno il virtuoso Re Pariksit, durante una battuta di caccia, arrivò alla capanna del saggio Samika, al quale chiese di offrirgli qualcosa che potesse dissetarlo. Ma questi, che era seduto in una posizione yoga ed era chiuso dentro se stesso, rapito dall’estasi di una profonda meditazione trascendentale, non s’accorse affatto dell’arrivo del sovrano, per cui non si mosse né aprì gli occhi che teneva ben chiusi per non essere distratto da cose esterne.
Pariksit era esausto, e in più da ore era tormentato da una sete insopportabile, per cui il suo stato mentale era alterato e poco predisposto alla gentilezza e alla cordialità, doti che solitamente lo contraddistinguevano. Continuò a chiamarlo senza ricevere risposta.
“Questo Rishi ignora le più elementari regole dell’ospitalità,” pensò, “e non si cura affatto di me. Non ha voglia di adempiere ai suoi doveri e per questo fa finta di essere immerso nella sua meditazione. Ma gli insegnerò io a rispettare il suo Re.”
Senza riflettere sul grave errore che stava per commettere, prese con la punta dell’arco un serpente morto e glielo pose attorno al collo a mò di ghirlanda. Poi andò via infuriato. Cosa aveva spinto Pariksit a comportarsi in quel modo ingiusto? Egli non era un uomo qualsiasi ma un puro devoto del Signore ed era sempre stato in pieno possesso delle sue facoltà intellettive; era mai possibile che un semplice stato di affaticamento avesse potuto turbarlo fino a quel punto? Non ci sono dubbi che quel giorno fu qualcosa di superiore a spingerlo a quell’atto iniquo.
Il saggio Samika non si era ancora destato dalle sue riflessioni, quando passò davanti alla sua modesta capanna un ragazzo che era amico di Sringi, suo figlio. Quest’ultimo, per quanto fosse virtuoso, era di temperamento terribilmente focoso e impulsivo, e difficilmente riusciva a controllare le proprie emozioni. A questo punto vi sarà facile immaginare le sue reazioni quando, avvertito dall’amico, accorse sul luogo. Sringi era giovane, ma grazie agli insegnamenti del padre aveva già sviluppato dei forti poteri mistici, per cui in meditazione riuscì a ricostruire l’accaduto. Allora, senza neanche attendere che il padre riaprisse gli occhi, decise di vendicare l’insulto.
“Questi Kshatriya sono accecati dalle ricchezze e dal rispetto che il popolo conferisce loro,” sibilò, “e troppo spesso dimenticano che tutto ciò che è in loro possesso lo devono alle benedizioni e alla saggezza che noi Brahmana elargiamo generosamente senza voler nulla in cambio. Questo Pariksit ha ora passato il segno; offendendo mio padre che era innocente, ha meritato la morte.”
Senza riflettere sulle gravi conseguenze che avrebbero potuto conseguirne, egli santificò dell’acqua e si concentrò nella recitazione dei mantra vedici. Poi con tono solenne disse:
“Esattamente fra sette giorni, il vile che ha osato oltraggiare mio padre con una ghirlanda di rettile morto, morirà proprio per il morso di un serpente.”
Quando il saggio Samika si svegliò, trovò davanti a sé suo figlio che, con le lacrime agli occhi, lo informò dell’intero accaduto. La reazione del padre fu immediata.
“Cosa hai fatto,” disse al figlio, “non ti rendi conto che Pariksit è il monarca più santo che esista al mondo e che la nostra serenità dipende dalla sua protezione? Per un’offesa così insignificante hai condotto il mondo intero a una catastrofe certa. Quando la società si ritrova priva di una guida pura e onesta, tutti ne soffrono e la pace è sconvolta. Ma purtroppo quando un Brahmana, anche se giovane e incosciente come te, pronuncia una maledizione questa è destinata a sortire effetti. Tuttavia io avvertirò Pariksit e farò tutto ciò che è in mio potere per salvarlo.”
Quel giorno stesso uno dei discepoli di Samika si recò a Hastinapura, la capitale, e raccontò al sovrano gli ultimi avvenimenti. Questi, affranto, scosse la testa.
“Accolgo la maledizione di quel giovane come un autentico augurio. Infatti dal giorno in cui ho osato maltrattare in maniera tanto villana un santo, dentro di me non ho avuto più pace. Sono contento di pagare così il mio debito. Attenderò la morte con serenità, consapevole del fatto che in tal modo avrò l’opportunità di espiare il mio peccato.”
Non è da tutti poter conoscere il momento esatto della propria morte e in questo senso Pariksit poté ritenersi fortunato perché ebbe la possibilità di spendere quegli ultimi sette giorni che gli restavano da vivere nel migliore dei modi. Ritiratosi sulle rive del Gange, colse l’opportunità della presenza di Shukadeva Gosvami per ascoltare a viva voce la sacra scrittura chiamata Srimad-Bhagavatam fino all’ultimo momento.
E puntualmente, trascorsi che furono i sette giorni, il serpente Takshaka gli infuse il suo veleno e il Re abbandonò le proprie spoglie mortali.
Pochi giorni dopo il trono vacante fu rilevato dal giovane figlio Janamejaya.
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