Improvvisamente una voce le fermò. Era Trijata, una Rakshasi rispettata come una maga dai grandi poteri divinatori.
“Basta. Smettetela,” intimò a voce alta. “Non minacciate Sita. Non cercate di spaventarla. Mi sono appena svegliata da un sogno tremendo: ascoltate. Ho visto Rama che entrava trionfante a Lanka, seguito da eserciti di scimmie, e ho visto il terreno della città cosparso dei corpi dei nostri mariti, dei nostri figli, dei nostri padri, dei nostri parenti e amici. Ho visto numerosi presagi che indicavano la vittoria di Sita su colui che l’ha rapita. Se questo sogno si avvererà, è meglio per noi di non maltrattarla in questa maniera, perché poi potrebbe vendicarsi severamente.”
La Rakshasi, intimorite, non la molestarono più. Ma a quelle parole Sita non si era tranquillizzata di molto. Come poteva sperare ancora? Pensava.
“È passato un anno e Rama non è ancora arrivato. Forse non arriverà mai. Non riuscirà a trovare quest’isola inaccessibile e nascosta. Forse, chissà, mi ha persino dimenticata o ha rinunciato a cercarmi. La mia vita è un inferno. Il pensiero di Rama mi tortura. Non riesco a vivere senza di lui. E questi Raksasa che mi tormentano tutto il giorno… non posso continuare a vivere così. Digiunerò fino alla morte pensando al mio amato Rama.”
Ma in quel momento, quando aveva deciso di porre fine alla sua esistenza, un segno di buon auspicio apparve sul suo corpo. E poi altri, e altri ancora. Erano segni così chiari che Sita rinunciò al proposito di morire.
Hanuman vide che Sita soffriva troppo. L’aveva trovata, è vero, e avrebbe dovuto correre subito indietro per guidare gli eserciti verso Lanka, ma non poteva lasciarla in quello stato. Doveva darle un segno, una ragione per continuare a sperare e a vivere. Saltò su un ramo dell’albero sotto il quale Sita era seduta sconsolata, e le bisbigliò delle parole. Lei, incuriosita, guardò su e vide la piccola scimmia.
Questa è una sezione del libro “Il Ramayana”, in lingua italiana.
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