Il suo nome proviene dal fatto che originalmente fu parlata da un Rishi di nome Katha. Scritture teiste per eccellenza, tutte le Upanishad iniziano sempre offrendo rispettosi omaggi al Signore Supremo Brahman e al maestro spirituale dell’autore. Tali premesse chiamano le benedizioni che sono sempre necessarie quando si vanno a discutere argomenti di questo genere.
La Katha Upanishad racconta la storia del giovane Naciketa. Un giorno egli assiste a uno dei sacrifici del saggio Uddalaka Aruni, suo padre, e nota che la liturgia prevede l’uccisione di alcuni animali. Il giovane comincia a contestare la validità di tali atti, e lo fa con tale insistenza che il padre, evidentemente contrariato, in un atto d’ira condanna il figlio alla stessa sorte degli animali, e cioè a perdere la vita.
A quei tempi i brahmana possedevano tali poteri che le loro maledizioni non potevano mai cadere nel vuoto, per cui Naciketa abbandona le sue spoglie mortali e si dirige verso il regno del deva della morte, Yama. Giunto a destinazione, non lo trova, e decide di attendere il suo ritorno. Quando l’essere celeste che dispone del destino delle anime dopo la loro morte guarda il viso del giovane, capisce di avere a che fare con un brahmana dalle grandi qualità spirituali, per cui si sente in colpa per averlo fatto aspettare.
Così dice: “Giovane Naciketa, chiedimi tre benedizioni e io te le accorderò”.
Contento, Naciketa chiede prima di tutto di poter riguadagnare l’amore di suo padre, poi di acquisire perfetta conoscenza dei mezzi necessari a raggiungere i pianeti celesti, ed infine di imparare da lui l’eterna scienza dell’anima e il meccanismo che regola le trasmigrazioni.
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Questa è una sezione del libro “Filosofie dell’India”, in lingua italiana.
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