1) introduzione
La parola Vedanta significa “ciò che sta alla fine dei Veda”. Tutte quelle idee che mirano a spiegare lo scopo vero, il significato filosofico reale, ciò che i testi vedici vogliono intendere, possono essere definite Vedanta.
Come sappiamo, i Veda sono un’ampia raccolta di libri che trattano numerosissimi argomenti. La funzione del Vedanta, nella logica totale del Darshana, è quella di darne il siddhanta, o la conclusione filosofica autentica. Naturalmente non possono mancare i contrasti ideologici, per cui oggi ci sono diversi sistemi che si definiscono Vedanta. Il problema è stabilire quale sia quello giusto.
Le correnti di pensiero più importanti, e che si sono dati lunga battaglia, sono due: quella personalistica di Badarayana (meglio conosciuto come Krishna Dvaipayana Vyasa), che è il compilatore di tutti i Veda e del Vedanta-sutra, assertore convinto del dualismo spiritualistico, e quella di Shankara, l’autore del Shariraka-bhashya, che sostiene l’idea del monismo spiritualistico. Vedremo meglio questi due autori in seguito.
In origine il termine Vedanta stava ad indicare le Upanishad, scritte allo scopo specifico di dare un commento di tipo filosofico ai Veda; queste furono compilate dello stesso autore, Vyasa, cosa che conferiva alle Upanishad la massima autorità universalmente accettata. Poi il significato del termine “Vedanta” andò allargandosi a tutte quelle dottrine che ammettevano un principio cosmico supremo. Insomma, tutte quelle filosofie che giungevano alla medesima conclusione dei Veda e delle Upanishad.
Oggi, tuttavia, vige l’errata consuetudine di usare l’espressione Vedanta per riferirsi al sistema Advaita di Shankara, in quanto nel corso dei secoli ha riscosso enorme popolarità. Ma ovviamente
la paternità del vero sistema Vedanta va assegnata al suo autore originale.
Questa è una sezione del libro “Filosofie dell’India”, in lingua italiana.
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