Shankara non dubita dell’esistenza di un sé, senza il quale ogni forma di ricerca conoscitiva perderebbe di senso, ma questo sé è il Brahma, composto per propria natura interna di pura conoscenza. Brahma è il sakshin (il testimone), cioè il soggetto di tutto il conoscere. Ma proprio perché il sé è reale, non può essere un oggetto esterno a noi, per cui l’unica possibilità che abbiamo di comprenderlo è la meditazione interiore; alla fine di questa pratica noi diventiamo coscienti della nostra identità con l’uno-tutto che sta al di sopra di ogni pluralità e di ogni sofferenza. La meta del Vedanta, dunque, non può essere null’altro che rendere cosciente e duratura questa identificazione dell’io individuale con l’Ente Supremo.
I mezzi a disposizione sono lo studio, che è il presupposto teorico (ma allo stesso tempo pratico, in quanto la riflessione disciplina e purifica la mente), e la pratica di esercizi spirituali che facciano coincidere su un punto solo tutta l’attenzione. Quattro sono le condizioni fondamentali necessarie affinché la ricerca giunga a buon fine. Bisogna: 1) saper distinguere un soggetto di natura eterna da ciò che non lo è, 2) non ambire a nessuna ricompensa per le austerità che si compiono, 3) praticare con costanza e determinazione la rinuncia e la meditazione, 4) desiderare solo la liberazione.
Abbiamo già detto che per Shankara il Vedanta non è una dottrina solo teorica, ma anche pratica, e che dà i mezzi per accedere alla salvezza. Ma questa può essere raggiunta solo per gradi, ed ecco spiegata la ragione dell’esistenza del ciclo di morti e rinascite (samsara). In altre parole, ci si reincarna proprio per ottenere una purificazione graduale.
La base imprescindibile della salvezza sono i Veda, le scritture che insegnano la conoscenza divina. Nelle loro pagine troviamo tutte le indicazioni necessarie al conseguimento della perfezione ultima.
Questa è una sezione del libro “Filosofie dell’India”, in lingua italiana.
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