D: Torniamo al momento della caduta. Hai detto che la jiva inizia la sua disavventura ai massimi livelli possibili in questo universo. Cosa significa?
R: I massimi livelli sono i pianeti superiori, dove vivono esseri dotati di caratteristiche per noi inimmaginabili. Non è vero che il nostro è l’unico pianeta dell’universo occupato da esseri viventi. I Veda ci informano che tutti i pianeti sono abitati, anche quelli che conosciamo, la Luna compresa. Solo che non abbiamo la capacità di percepirne le entità che li popolano.
Da questi pianeti inizia la storia della jiva in questo universo. D’altro canto sarebbe impensabile ritenere che una jiva, per quanto “allo stato di seme”, potente come un piccolo Dio, cadesse immediatamente a livelli inferiori di vita, per i quali ci vuole una particolare struttura di corpo sottile. La jiva scende a un livello consono “alla propria nobiltà”, in luoghi adatti al suo livello spirituale. Ma venendo a contatto con la materia, l’anima individuale comincia a intossicarsi del proprio potere, dell’insospettata capacità di godere anche senza la presenza di Dio. Ed è a questo punto che inizia a ricoprirsi di caratteristiche materiali sempre più grossolane, finché non giunge a avvolgersi di veri e propri elementi.
Per vedere di quali “enti” materiali la jiva gradualmente si riveste, facciamoci aiutare dalla Bhagavad-gita.
“Terra, acqua, aria, fuoco, etere, mente, intelligenza e falso ego – tutti insieme questi otto costituiscono la Mia energia materiale separata.”
Bhagavad-gita 7.4
Vedremo meglio la composizione della natura materiale quando la tratteremo nei capitoli specifici. Per ora è sufficiente sapere che man mano che la jiva si degrada si copre sempre di più di strati di materia, a cominciare dal più sottile, il falso ego (ahamkara), per proseguire con i restanti sette. A causa dell’influenza di questi elementi materiali, la jiva dimentica gradualmente la sua vera identità, e si identifica sempre più in qualcosa che non è (maya, ciò che non è).
I Veda chiamano questo stato di cose “condizione illusoria di vita”: vivere pensando di essere qualcosa che non si è, e agire di conseguenza. E’ come lo stato di follia del pazzo che crede di essere un uccello e tenta di spiccare il volo. Allo stesso modo, quando la jiva si convince di essere parte della natura materiale si comporta di conseguenza, con risvolti disastrosi che puntualmente si risolvono in sofferenze e frustrazioni senza fine.
Nell’universo materiale ci sono 8.400.000 specie viventi. Noi cominciamo a viaggiare e a soffermarci in tutte queste e, di conseguenza, a sottoporci a varie esperienze: ognuna in un corpo diverso, ognuna con una gamma di piaceri e di patimenti, ognuna con una differente identificazione.
Certe volte crediamo di essere un deva, altre volte un uomo o una donna, un cane, un gatto, un insetto, un albero, un filo d’erba, un pesce o addirittura un minerale. E, sempre più confusi e sconvolti dall’ignoranza, ogni volta, con piena e grottesca convinzione, pensiamo: questo sono io, e “ora vi farò vedere come riuscirò a godere della mia vita”.
Ma, velocissima e implacabile, la morte sopraggiunge e ci distoglie dalle nostre dolorose illusioni, ci strappa dai nostri sogni e veniamo trascinati brutalmente dalle leggi materiali in altri corpi. Dove puntualmente soffriamo.
Tutto questo si ripete per miliardi di anni. Tanto evidentemente ci vuole per giungere alla comprensione dell’errore madornale che stiamo commettendo.
D: Prima hai detto che nella para-prakrti ci sono jiva che hanno scelto di non venire in questo mondo e secondo i Veda ciò è possibile in quanto rientra nella condizione di libertà dell’individuo. Tecnicamente come avviene?
R: Dal piano tatastha, dove la jiva ha la possibilità di razionalizzare la sua visione della realtà e di tradurla in libera scelta, decide di andare direttamente nei mondi spirituali, come Vaikuntha o Krishna-loka. Grazie alle leggi del Signore, questa è promossa direttamente nei pianeti eterni del Signore.
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