Proprio in quel periodo arrivò ad Ayodhya il grande Visvamitra, il saggio dalla fama immortale, che aveva raggiunto le più alte vette della perfezione ascetica. Le sue austerità furono così severe che i Deva si spaventarono più volte, pensando che volesse distruggerli col fuoco della sua potenza. Entrò nel palazzo reale e si annunciò, chiedendo di essere ricevuto dal re. Appena Dasaratha seppe del fortunato arrivo, balzò dal trono e si precipitò a dargli il benvenuto, portando con sé tutto il necessario per onorare il santo. Quando il puja fu terminato, tutti si sedettero, e fu Dasaratha a rompere il silenzio.
“O grande Rishi, santi come te purificano ogni luogo che visitano. Io sono felice del tuo arrivo e voglio prometterti di soddisfare qualsiasi tua necessità, anche se so che asceti del tuo calibro non hanno alcuna esigenza. Tuttavia voglio sperare che tu sia venuto qua con qualche richiesta. Ne sarei felice, così potrei impegnarmi al tuo servizio.”
Il saggio aveva un’espressione grave, ma una vivida luce di santità e di misericordia emanava dai suoi occhi scuri. Era visibilmente soddisfatto per la completa disponibilità del re. Senza fretta alcuna parlò:
“In realtà sono venuto qua con una richiesta precisa,” disse Visvamitra, “che nasce da problemi che ostacolano la mia tranquillità e quella degli altri eremiti con i quali vivo. Sono venuto a chiederti assistenza.”
Dasaratha si sentì contento di poter fare qualcosa per un saggio così famoso.
“Qualunque sia l’ostacolo, fa conto che non esista già più,” rispose Dasaratha con entusiasmo. “Niente in questo mondo deve ostacolare la vita di chi lavora nel proprio spirito per il beneficio di tutti. Dimmi, qual è il tuo problema?”
“In questo periodo,” disse l’asceta, “stiamo svolgendo delle cerimonie sacrificali di grande importanza, ma due Raksasa ci impediscono di portarle avanti, disturbando la procedura prevista. Essi gettano cose sporche e contaminate nell’arena che invece deve sempre essere tenuta pura. Io vorrei che i due malvagi, Maricha e Subahu, siano uccisi e che la pace torni nelle nostre vite.”
“O Visvamitra,” disse Dasaratha, “io stesso partirò oggi per porre fine alla vita dei due malfattori. Non temere. Presto i vostri yajna potranno riprendere tranquillamente come prima.”
Ma il Rishi non sembrava contento.
“No, re virtuoso. Non voglio che tu venga. Ti chiedo di affidarmi i tuoi figli Rama e Laksmana. Saranno loro a distruggere i Raksasa.”
“Rama e Laksmana?” esclamò Dasaratha. “Ma sono poco più di due ragazzi.”
Visvamitra lo guardò leggermente irritato.
“Lo so. Ma ho motivi validi per chiederti loro, e non te in persona o altri.”
Dasaratha cominciò a sentirsi agitato. La missione era pericolosa, non voleva esporre a quei pericoli i suoi giovani figli, che amava teneramente.
“O saggio, io non sono mai stato sconfitto in battaglia. Non puoi dubitare che io sia capace di ottenere il risultato. Non temere: io con il mio esercito distruggerò i due Raksasa.”
Vedendo Dasaratha agitato, Visvamitra aggrottò le sopracciglia, infastidito dalla mancanza di fede del re. La sua voce diventò ancora più cupa e profonda.
“Non pensi che io sia in grado di proteggere i tuoi figli? Io ho chiesto Rama e Laksmana. Se non vuoi affidarmeli, dimmelo e me ne andrò all’istante.”
Vedendo il saggio deciso nell’intento e pensando al grave pericolo che correvano i suoi figli, Dasaratha si sentì mancare. I suoi ministri accorsero per sorreggerlo. Si riebbe in tempo per sentire la voce grave di Visvamitra che tuonava.
“Quando sono entrato mi hai promesso che mi avresti dato qualsiasi cosa. Ma vedo che non vuoi mantenere la promessa!”
Si alzò e fece l’atto di andarsene col volto visibilmente irato, quando il sapiente Vasistha lo chiamò, fermandolo.
“Grande Visvamitra, non essere adirato con il nostro re. Egli vuole sinceramente renderti servizio, ma ha paura per i ragazzi. Attendi ancora un momento, io gli parlerò. Lo convincerò ad avere fede nella protezione che saprai dare loro.”
Il Rishi si fermò e Vasistha si rivolse al re.
“Rama e Laksmana non corrono alcun pericolo,” lo ammonì. “Ricordati che Rama è nato per la distruzione di tutti i Raksasa e che inoltre è protetto da Visvamitra, il quale potrebbe uccidere egli stesso Maricha e Subahu se non fosse impegnato in quel sacrificio. Non preoccuparti. Manda con lui i tuoi figli a cuor sereno e presto li vedrai tornare vittoriosi e radianti gloria.”
Dopo mille incertezze, Dasaratha acconsentì.
In giornata Visvamitra, Rama e Laksmana lasciarono Ayodhya e si addentrarono nella foresta. Gli uccelli, il vento, persino i colori sembravano cantare la stessa canzone di pace e di serenità. La foresta era di una bellezza straordinaria, celestiale, che conduceva con naturalezza a pensieri di virtù. I due fratelli erano sereni e seguivano il saggio con rispetto. In compagnia di quel Muni così erudito il viaggio si rivelò piacevole e istruttivo. Visvamitra raccontò molte storie e mostrò loro svariati luoghi santi, narrando sul posto storie avvincenti.
Dopo qualche giorno di cammino, i tre giunsero in un’altra parte della foresta. L’aria non era più la stessa, si respirava un’atmosfera tesa e demoniaca; Rama avvertì subito che erano entrati in un luogo diverso, non sereno e tranquillo come gli altri. Qua e là giacevano le ossa di vari animali e anche di uomini.
L’aria vibrava e metteva a disagio. Rama vide che anche Visvamitra aveva perso la sua allegria e la sua loquacità.
“Vedo che c’è qualcosa che ti preoccupa,” gli chiese. “Io vedo chiaramente sul tuo viso i segni del disagio. In questa parte della foresta l’atmosfera non è più la stessa, non sento più gli uccelli cinguettare e non vedo neanche tanti animali. Dimmi. C’è qualcosa di particolare in questo luogo?”
“Si, è vero,” ammise Visvamitra. “Questa foresta non è come tutte le altre perché da molti anni qui vive Tadaka, una terribile Rakshasi. Tu sai che generalmente questi esseri sono molto malvagi e provano piacere nel mangiare carne, specialmente quella umana, e nel bere sangue. Oltre a questo hanno molti poteri mistici e in combattimento sono valorosi.”
“Mi sembra di capire,” replicò Rama, “che la presenza di costei è fonte di sofferenza per molte persone. Vuoi che io faccia qualcosa a proposito?”
“Guarda queste ossa e senti il tanfo che c’è nell’aria,” fu la risposta. “Neanche gli animali passano più per questi sentieri. Una volta questa era una foresta piacevole e piena di gioia. Tadaka l’ha fatta diventare un deserto squallido e orrendo. Per questo è bene che tu la uccida.”
“Ho già sentito parlare di Tadaka,” disse Rama incuriosito, “e vorrei sapere qualcosa a suo riguardo. Raccontami la storia della sua vita.”
Fermandosi sul posto, il Rishi guardò Rama e Laksmana e con calma raccontò.
“Una volta Tadaka non era l’orribile demone che è ora. E’ diventata tale in seguito. Ascolta:
“Una volta c’era uno Yaksha di nome Suketu. Era una persona dal cuore puro e gentile, ma non aveva figli e se ne rattristava. La sua divinità era Brahma e la serviva con grande devozione. Brahma fu soddisfatto della sua devozione e gli concesse una figlia dotata di una grande forza fisica. Questa era Tadaka.
“Lei sposò Sunda ed ebbe un figlio di nome Maricha. In seguito Sunda fu ucciso dal Muni Agastya e i due decisero di vendicare la morte del familiare. Venendo a conoscenza delle loro intenzioni, il saggio lanciò una potente maledizione e Tadaka e suo figlio Maricha diventarono Raksasa crudeli e orribili.
“Sia Tadaka sia Maricha sono un pericolo continuo per la gente pacifica. Il tuo dovere di kshatriya, quindi, è quello di ucciderla e di alleviare così le sofferenze degli indifesi.”
Intenzionato ad agire come Visvamitra desiderava, con grande decisione Rama cominciò a fare rumore scuotendo i rami degli alberi, per attirare l’attenzione di Tadaka. Sentendo quei rumori molesti la demone, che non era lontana, si mise ad ascoltare cercando di capire quale potesse esserne la causa. Non riuscendo a capire cosa potesse fare così tanto fracasso, corse sul posto per vedere di persona. Lì vide i tre. Con voce che sembrava provenire da una caverna profonda disse:
“Chiunque tu sia, uomo temerario, sei arrivato nell’ora giusta. Ho fame e oggi la placherò con le tue carni.”
Con grande irruenza Tadaka attaccò. Ma Rama si difese e dopo un breve combattimento la uccise. Appena la Rakshasi ebbe esalato l’ultimo respiro, Visvamitra abbracciò Rama e gli insegnò l’uso di certe armi celestiali. Con queste Rama divenne ancora più forte nei confronti di qualsiasi nemico.
Questa è una sezione del libro “Il Ramayana”, in lingua italiana.
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