Gli artisti hanno generalmente una sensibilità molto più sviluppata rispetto alla norma, ma il fatto di avere una percezione sensoriale più acuta non necessariamente aggiunge qualità alla vita se la persona non riesce a contestualizzarsi nel mondo, a capire chi è veramente e qual è la sua posizione nell’universo. Per esperienza clinica ho osservato che molte persone internate in ospedali psichiatrici hanno una sensibilità decisamente superiore alla media, a quella ordinaria, ma artista è qualcos’altro. Il fatto di percepire più intensamente, più profondamente, attiene semplicemente al piano degli indriya, ovvero al piano sensoriale. Possono esserci facoltà dei sensi più sviluppate, ma se queste facoltà non sono ben orientate, anziché procurare gioia ed aiutare nell’elevazione, possono spingere verso il basso, verso la degradazione. E’ vero che certe aberrazioni nel mondo moderno sono state proposte anche come arte, perché si è ricercata esasperatamente l’innovazione, ma si è perduto lo scopo cui l’opera d’arte dovrebbe essere destinata: far fare un salto di qualità alla consapevolezza. L’opera di un nevrotico, di un disturbato mentale, può essere anche qualcosa di accattivante, se si vuole anche di morbosamente affascinante, ma allo stesso tempo può mancare completamente lo scopo dell’arte così come concepito nella tradizione indovedica.
Ciò che piace, l’esperienza estetica, si coniuga nei Veda all’esperienza etica, in quanto etica ed estetica sono indissolubilmente collegate e si arricchiscono in maniera complementare per raggiungere lo stesso scopo in comune: l’integrazione e l’armonizzazione della personalità per accedere alla consapevolezza della propria originaria natura spirituale, l’essenza del nostro sé e della vita. L’esperienza etica necessita di essere interpretata e seguita, emulata e sperimentata, e tramite l’arte possiamo fornire soluzioni, strumenti efficaci per lavorare sul carattere; quindi offrire immagini, forme, comunicare il desiderio di voler aiutare qualsiasi individuo che aspira a migliorare la propria posizione, a mettersi in cammino verso la perfezione. Il fascino artistico di un’opera deve attrarre ed ispirare verso una dimensione trascendente. Il modello estetico richiede creatività, rinnovamento continuo, la ricerca di punti di vista sempre più alti, ma senza il sostegno dell’esperienza etica queste prospettive superiori non si raggiungono e il sogno si esaurisce in uno smarrimento della coscienza e in una profonda delusione. Un artista, come ogni altro essere umano, dovrebbe cercare di ristabilire una relazione profonda con se stesso, con gli altri, con l’universo e con le forze che lo governano, con l’origine e lo scopo della vita, e produrre opere che siano frutto di questa armonizzazione.
Ma l’artista è diverso dall’uomo comune? In realtà tutti noi siamo potenzialmente artisti, anche se gli spettacoli creati dagli umani – al contrario di quelli della natura – non sempre sono un’opera d’arte, perché l’alienazione è ormai diventata una malattia diffusa. La stravaganza, la smania di diventare famosi, la volontà di distinguersi ad ogni costo vanno a rafforzare l’affanno della cultura moderna. Non è un’interpretazione o un’espressione affrettata ed egoica che costituiscono la vera opera d’arte, ma è la profondità e la luminosità del mondo interiore che l’artista esprime, quando esso è in perfetta coerenza e identità con l’oggetto della sua espressione e quando essa si è radicata profondamente nel suo cuore. In quella fase del samyama che è la fase superiore dello yoga, il sadhaka o in questo caso l’artista si concentra sul proprio oggetto: vuole rendere ad esempio la musica di una cascata d’acqua o la musica non udibile all’orecchio fisiologico che accompagna l’aurora, o la musica che accompagna l’incontro tra due innamorati. Quando l’artista ha penetrato in sé e ha fatto suo con la concentrazione quel suono, quella visione, quel mondo, quando lo ha vissuto interiormente e ha sentito già quella musica dentro di sé, allora può tentare di offrirla agli altri.
Se cerchiamo l’ispirazione, dobbiamo rivolgerci a quelle forme superiori di espressione artistica attraverso le quali colui che vede può far vedere ad altri. Ecco perché la pratica e la rigorosa aderenza a certi principi etici è fondamentale. Questi principi prima di tutto mirano alla purificazione degli organi sensoriali, poi alla purificazione della mente, poi alla purificazione dell’intelligenza. Quando la struttura psichica è purificata, la percezione del contenuto del nostro oggetto di contemplazione appare vivida, prorompente in tutta la sua realtà, come stagliata nel cielo con colori che vanno molto oltre il limitato settore di percezione condizionata. Nella tradizione dei Veda, l’artista esprime la propria arte seguendo dei canoni già presenti che fungono come il telaio con cui il soggetto tesse tutta la propria creatività. La fantasia indisciplinata che sfocia nell’aberrazione mentale o l’utilizzo artificioso e artificiale di sollecitazioni sensoriali sono ben lungi dalla vera arte così come intesa dalla tradizione indovedica; forse possono eccitare la mente dell’uomo moderno, ma sono molto lontane da una concezione e da un’applicazione dell’arte come Yoga che al contrario vede l’individuo perfettamente integrato con il progetto divino universale in armonia con la mente cosmica dell’Artista supremo.
Tratto dalla lezione dal titolo ‘Arte come Yoga’, Vicenza 21/09/2002.
di Marco Ferrini
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