La giornata era bella e il sole era alto nel cielo. Tutto sembrava esprimere felicità e assenza di problemi. Sita e Rama, contemplandosi l’un l’altra, parlavano di mille cose. Ma anche in quel momento di gioia un pericolo era in agguato. E’ probabilmente la natura stessa di questo mondo: l’innocenza di ogni passo cela un pericolo potenziale. All’improvviso si levò un forte vento e il cielo si oscurò: i cavalli, spaventati, nitrirono forte. Dasaratha guardò Sumantra.
“Questa non è una normale tempesta. La giornata è calma e pochi istanti fa non c’era un filo di vento. Ci sono molti segni che fanno presagire un pericolo.”
Anche Sumantra sentiva l’ansietà crescere in sé.
“Sì, è vero. Qualcosa sta per accadere. Vigiliamo.”
D’un tratto si fece buio. Si udì un tuono e tornò la luce del giorno. Illuminato da una luce di gloria Parasurama, l’incarnazione divina che sterminò ventuno volte l’intera razza degli kshatriya, era davanti a loro, e teneva saldamente la sua ascia nella possente mano. I suoi occhi erano di fuoco, la sua figura e il suo stesso nome incutevano terrore a ogni guerriero. Parasurama si era fermato in mezzo al sentiero e impediva loro di proseguire il cammino. I soldati di Dasaratha tremavano di paura, perché ben conoscevano la fama dell’invincibile Parasurama. I brahmana mormorarono:
“Cosa vorrà da noi il figlio di Jamadagni? Vorrà forse ricominciare lo sterminio degli kshatriya? La sua vendetta è stata compiuta molto tempo fa; cosa potrà volere da noi?”
Prontamente Dasaratha scese dal carro e offrì tutti gli onori al brahmana che un giorno adottò la vita del guerriero. Ma era evidente che Parasurama aveva uno scopo ben preciso per fermare la colonna del re. E si sentì la sua voce, risoluta, solenne.
“Dov’è tuo figlio Rama?”
Rama fece un passo avanti e chinò la testa in segno di rispetto. Parasurama lo guardò.
“Tu hai commesso il sacrilegio di rompere l’arco di Shiva e io devo punirti per questo.”
Dasaratha era terrorizzato. Cercò di parlare al potente brahmana, ma egli lo ignorò: aveva occhi solo per Rama.
“C’è un arco simile a quello che tu hai spezzato,” riprese Parasurama. “Quei due archi furono fatti da Visvakarma e servirono nel combattimento che doveva decidere chi fosse il più forte tra Vishnu e Shiva. Io non capisco come tu possa aver rotto quell’arco, ma voglio vedere se riesci a tenere anche solo nella mano l’altro.”
Con un boato assordante l’arma di Vishnu comparve nella mano di Parasurama. Lo porse al principe, sereno nonostante l’incombente pericolo. Rama lo prese senza sforzo alcuno, guardandolo con aria tranquilla, priva di qualsiasi ansietà. Parasurama era stupito: come poteva quel giovane principe, dopo aver rotto l’arco di Shiva, tenere nella mano quello di Vishnu? Poi capì: solo Vishnu stesso poteva fare una cosa del genere. E i due scomparvero alla vista di tutti.
“Tu sei il Dio Supremo, Vishnu incarnato sulla terra,” pregò Parasurama con le mani giunte. “Perdona la mia impudenza: non sapevo chi fossi tu in realtà.”
Rama pose una freccia sull’arco e tese la corda.
“Una volta incoccata, questa freccia non può più essere ritirata. Deve colpire e distruggere qualcosa. Dimmi, cosa vuoi che distrugga?” disse Rama con fermezza.
“Distruggi i pianeti che ho meritato con le mie austerità,” fu la risposta.
E la terribile freccia partì e distrusse quei pianeti. Offrendo i suoi omaggi a Rama, il brahmana scomparve.
Finalmente Dasaratha vide ricomparire suo figlio, ma non riusciva a capire come fosse scampato a un simile pericolo. Poco dopo ripartirono, e giunsero ad Ayodhya, festeggiati dal popolo che li aspettava.
Anni di felicita’
Qualche anno dopo Dasaratha mandò Bharata e Satrughna a Kekaya a trovare Yudhajit, lo zio materno. Il glorioso principe Rama passò così dodici anni di felicità con la moglie Sita. I due erano inseparabili, mai potevano essere visti l’uno senza l’altra. In realtà non potevano sopportare neanche un momento di separazione. Come Lakshmi e Vishnu aumentavano la loro felicità e la loro bellezza stando l’uno accanto all’altra, Rama e Sita risplendevano sempre più non separandosi mai, neanche per un momento.
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