Trascorsero giorni tranquilli.

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A parte Bhima che aveva il problema della quantità di cibo sempre troppo scarsa per lui, i Pandava erano contenti e impiegavano il tempo in modo proficuo studiando i testi sacri e andando in questua solo per quel tanto che bastava per la loro sopravvivenza. Ma anche quel periodo di serenità fu ad un certo punto scosso da un dramma che li avrebbe coinvolti.

Accadde che un giorno Kunti udì involontariamente dei lamenti accorati provenienti dalle stanze della famiglia che li ospitava: erano dei pianti così convulsi e disperati che si preoccupò molto e volle conoscerne le cause.

“Cos’è successo di tanto grave? Perché piangete così? Ditemene le ragioni,” chiese gentilmente.

“E’ possibile che non sappiate quale calamità ci sta facendo soffrire? Sono tanti anni che la nostra esistenza è un inferno, e vivere in questa regione è oramai diventato impossibile. Ciò che sta accadendo è terribile,” rispose il Brahmana che stringeva a sé la moglie e i due figli.

A fatica Kunti riuscì a farsi raccontare ciò che rendeva tanto dolorosa la vita dei nuovi amici.

“Tempo fa un forte Rakshasa di nome Baka arrivò a Ekachakra e subito cominciò delle scorribande terribili: entrava nei paesi e ne massacrava gli abitanti, rubando e portando via qualsiasi cosa volesse. Il nostro Re tentò di intervenire, ma avendo capito che questi era troppo forte per lui, non tentò neanche di combattere e, come un codardo, fuggì lontano. A quel punto la situazione era diventata insostenibile: non si sapeva come porre fine alle stragi e alle razzie, quando gli anziani del paese riuscirono a trattare con quel demonio. Alla fine costui ha accettato di cessare le sue azioni nefande, a patto però che ogni settimana una famiglia gli mandi alla caverna in cui vive uno di loro alla guida di un carro colmo di cibo, trainato da otto muli. Come potete immaginare, il Rakshasa mangia tutto, compreso il conducente. Questa settimana tocca alla mia famiglia sacrificare qualcuno, e uno di noi dovrà morire.”

Tanto dolore colpì Kunti che pensò di sdebitarsi con il Brahmana per l’ospitalità ricevuta.

“Per favore, non piangete più,” disse loro Kunti, “non preoccupatevi più per il Rakshasa. Io risolverò il problema che assilla il vostro paese. Mio figlio andrà al vostro posto, e condurrà il carro fino alla caverna di Baka; poi porrà fine a quell’esistenza malvagia.”

Il Brahmana era esterrefatto; da una parte avrebbe voluto aggrapparsi a quello che sembrava uno spiraglio di speranza per sé e per la sua famiglia, ma dall’altra non intendeva mettere a repentaglio la vita del giovane, che pensava fosse un ragazzo comune. Così disse:

“E’ un suicidio, non posso accettare la tua proposta.”

“Mio figlio non corre alcun pericolo,” rispose Kunti. “Tu non sai della sua grande forza, che non conosce rivali. Non temere, non ci sono rischi per lui; al contrario è il Rakshasa a dover avere paura.”

Il Brahmana, convinto da quelle argomentazioni, accettò.

La sera stessa la madre raccontò ogni cosa a Bhima.

“Figlio,” concluse Kunti, “abbiamo un dovere di riconoscenza verso queste persone che ci hanno offerto asilo per così tanto tempo e anche nei confronti della virtuosa gente di questo paese. Voi che siete Kshatriya, guerrieri, avete il dovere di difendere la gente debole e di uccidere tutti coloro che disturbano la pace e la religione. Dunque io credo che dovresti andare dal Rakshasa e distruggerlo. Inoltre, tu sei sempre affamato e il cibo che otteniamo mendicando è sempre così scarso: andando da Baka con il carro potresti sfamarti con ciò che è destinato a lui.”

Bhima non si tirò indietro, anzi accettò quel compito con esultanza. Era felice di avere in tal modo l’opportunità di fare qualcosa per quella famiglia che era sempre stata tanto gentile con loro, e allo stesso tempo si sentiva anche risollevato alla prospettiva di potersi finalmente sfamare in modo soddisfacente.

Partì il giorno stesso.

Ci volle qualche ora di viaggio per giungere sul posto dove si trovava la caverna di Baka. In un primo momento pensò di causare qualche rumore per richiamare il Rakshasa, ma subito ci ripensò.

“Se uccido ora il Rakshasa poi dovrò digiunare interi giorni per purificarmi dal contatto con quell’essere immondo. In questo periodo ho mangiato troppo poco per attendere altro tempo, per cui è meglio che prima mangio e poi lo affronto.”

Il potente Pandava cominciò a mangiare voracemente l’ottimo cibo, provocando con le mandibole forti rumori. Il Rakshasa udì lo strano suono che proveniva dall’esterno e uscì per vedere cosa stesse accadendo. Ciò che gli si prospettò alla vista lo lasciò per un attimo impietrito dalla sorpresa: la vittima, invece di gridare e chiedere pietà come avevano sempre fatto le altre, per nulla preoccupata del pericolo, stava mangiando tutto il suo cibo.

Superata la sorpresa, Baka tuonò contro Bhima e non ottenendo risposta gli si scagliò contro con furia inaudita; ma questi non si scompose e continuò a mangiare finché non ebbe terminato. Poi si alzò e si scatenò. 

Al termine della furibonda lotta, il Rakshasa giaceva a terra privo di vita.

Bhima, allora, trascinò il gigantesco corpo fino alle porte del paese e lo lasciò lì, in modo che tutti potessero vederlo. Poi, prima che qualcuno potesse scorgerlo e sospettare chi in realtà fosse, fuggì. Certamente quella non poteva essere stata un’impresa fatta da un povero Brahmana.

Ci fu una grande festa per la morte di Baka e per la fine di quell’incubo. Grazie a Bhima, ora si poteva vivere serenamente.

 

Questa è una sezione del libro “Maha-Bharata Vol. 1”, in lingua italiana.

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