Visvamitra narrò la sua storia.

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Durante il viaggio i tre arrivarono nell’eremo di Vamadeva e Visvamitra narrò la sua storia.

Finalmente Visvamitra, Rama e Laksmana arrivarono nello stupendo luogo dove il saggio viveva e svolgeva le sue austerità e i suoi sacrifici. Lì c’erano molti asceti impegnati nei servizi più disparati, e tutti emanavano una luce di purezza e di serenità. Quasi tutti vestiti di semplici stoffe di cotone arancione, avevano i capelli raggruppati in cima alla testa. La scena era idilliaca e Rama si sentì felice e risollevato. Quanta spiritualità emanava da quel luogo! Quando un uomo stanco delle illusioni della vita materialistica desiderava volgersi dentro di sé per trovare il vero senso della propria esistenza, andava in uno di questi ashrama, o luoghi dove si praticava la vita spirituale. Gradualmente il bruciore dei desideri, della collera e dell’invidia si placava e una nuova coscienza sorgeva dal cuore. Era la coscienza di Dio, quella che rendeva realizzati nel sé. Nell’ashrama di Visvamitra si respirava una forte atmosfera spirituale.

Visvamitra non voleva indugiare ancora e cominciò i preparativi per lo yajna. In poco tempo tutto fu pronto e la cerimonia ricominciò. Rama e Laksmana si misero in guardia con attenzione, guardandosi intorno costantemente. Non mangiarono né dormirono per sei giorni e sei notti.

Al sesto giorno si udì un sordo brontolio provenire dal cielo. E mentre gli asceti continuarono imperterriti a recitare i mantra vedici e a gettare ghi nel fuoco sacro, Rama e suo fratello capirono che i demoni erano in arrivo. Si scambiarono uno sguardo di intesa. E dal cielo cominciarono a cadere oggetti immondi: pezzi di carne, sangue, interiora, urina, escrementi e ogni altro genere di sudiciume. Si udì una violenta e agghiacciante risata e la pioggia demoniaca aumentò. Rama reagì cominciando a scagliare frecce verso l’alto con una tale velocità da creare una gigantesca cupola fatta di frecce attraverso la quale niente poteva filtrare. Maricha e Subahu si stupirono di ciò che stava accadendo e cominciarono a far cadere enormi macigni. Ma Rama respinse anche quelli. A quel punto i Raksasa capirono di avere a che fare con un avversario degno di seria considerazione e smisero di giocare. Attaccarono dunque i due giovani principi.

Dopo un violento combattimento Rama uccise Subahu e scaraventò Maricha a molti chilometri di distanza, utilizzando l’arma chiamata vayavya-astra, che creava un vento impetuoso. L’ultimo suono che si sentì fu il grido di rabbia di Maricha. I Raksasa erano sconfitti, da quel giorno in quella foresta la vita dei Rishi sarebbe stata molto più tranquilla.

I santi personificano i principi della religione e quando questi sono in pericolo Vishnu si incarna e li protegge. Questa è la sua solenne promessa.

Rama e Laksmana erano contenti della riuscita del loro compito e quando il sacrificio fu terminato si presentarono davanti al saggio.

“Quegli esseri malvagi sono stati sconfitti e non vi recheranno più alcun disturbo. Dicci, cosa possiamo fare ancora per te?”

Visvamitra sorrise e chinò la testa in avanti esprimendo la sua felicità per il successo ottenuto e approvazione per l’atteggiamento umile dei principi.

“Sapete, il re di Mithila, Janaka, sta per eseguire un grande sacrificio. Egli ha un arco che una volta era l’arma personale di Shiva. Poi il Dio la dette al re Devarata, che in seguito lo donò a Janaka. Ma non era un arco normale. Nessuno riesce neanche a impugnarlo, che dire di usarlo. Miei valorosi principi, se volete possiamo andare a Mithila ad ammirare l’arco di Shiva.”

Di buon grado i due principi accettarono la proposta, e così ripartirono. Passando per favolose foreste, attraversando freschi ed incontaminati fiumi e ruscelli, parlavano di antiche storie di saggi e di Deva. Visvamitra raccontò vicende del suo albero genealogico e la stupenda storia della sua vita. Una notte raccontò anche la storia del fiume Gange e della sua discesa nei pianeti mediani e inferiori. Poi il piccolo gruppo arrivò nell’eremo dove viveva ancora Ahalya. Visvamitra raccontò la sua storia.

“Molto tempo fa questo eremo apparteneva al santo Gautama che, assistito dalla moglie Ahalya, praticava severe austerità. A quei tempi non esisteva donna più bella di lei, tanto che persino Indra, il re dei pianeti celesti, se ne invaghì. Un giorno in cui Gautama si era allontanato dall’eremo, Indra decise di prendere le sue sembianze pensando di ingannare Ahalya, ed entrò nella capanna.

“Indra chiese alla donna di giacere con lui. Ahalya lo guardò. Si era accorta che non era suo marito, e aveva anche capito che si trattava di Indra, ma accettò. Dopo il rapporto sessuale Indra si sentì preso dal panico per paura che Gautama potesse tornare e trovarlo lì. Si alzò velocemente e fece per fuggire, ma inutilmente: Gautama era tornato, era già lì, dietro la porta. Vedendo Indra fuggire, capì l’accaduto e lo maledì con violenza:

“Tu sei entrato nel mio ashrama e prendendo le mie sembianze hai goduto del corpo di mia moglie. Per questo atto vile tu diventerai impotente.”

“Mentre Indra fuggiva, Gautama si volse verso la moglie che tremava come una foglia per la paura. Guardandola intensamente, disse:

“E tu, cara moglie, tu non mi sei stata fedele. Tuttavia il mio sentimento per te non è mutato. Ti purificherai dal tuo peccato vivendo per molti anni in questo eremo con un corpo invisibile agli occhi degli uomini e mangerai solo aria. Dormirai in un letto di cenere e soffrirai di un rimorso senza limiti. Ma quando Rama, il figlio di Dasaratha, visiterà questo luogo tu sarai libera dalla mia maledizione e torneremo a vivere insieme.”

“Ahalya fu felice di poter purificare così la sua colpa,” continuò Visvamitra, “e di poter tornare un giorno a vivere felicemente con il marito. Indra riacquistò la capacità sessuale dopo molto tempo e fatica, ma Ahalya ancora aspetta di essere liberata dalle sue pene. Spetta a te ridarle la pace. Entra quindi nell’eremo.”

Appena Rama fu entrato vide davanti a sé una stupenda donna che lo guardava con occhi riconoscenti. Pochi istanti dopo apparve il saggio Gautama, che ringraziò di cuore il principe e poi, insieme, scomparvero.

Non erano trascorsi molti giorni dalla partenza quando entrarono a Mithila, decorata e pervasa da una grande aria di festa.

Visvamitra li condusse subito all’arena del sacrificio del re Janaka e si annunciarono. Pochi istanti dopo videro Janaka, accompagnato dai suoi ministri più importanti, uscire per riceverli personalmente. Offrì un puja al santo Visvamitra e gli lavò i piedi con grande umiltà. Dopodiché furono fatti accomodare. Janaka si rivolse a Rama.

“Caro giovane principe, tu conosci la storia dell’arco di Shiva?”

Rama assentì.

“Sì. Visvamitra me ne ha parlato e sono anzi curioso di vederlo”, rispose.

“Questo arco è così pesante,” raccontò Janaka, “che nemmeno i re più potenti della terra sono stati neanche in grado di spostarlo. Io sono deciso a dare mia figlia Sita in sposa a chi riuscirà a impugnarlo e a porgli la corda.”

Il re raccontò in breve la storia della nascita della figlia e poi la fece chiamare. Quando Sita entrò, Rama la guardò, come folgorato. Aveva già sentito parlare di lei, ma non si aspettava una donna simile. Sita risplendeva di una bellezza che non era di questo mondo, ma che proveniva dal mondo dove le forme non hanno difetti o limitazioni. Non aveva mai visto una donna tanto bella. Oltre alla bellezza fisica, da Sita emanava una luce profonda di castità e di santità e questo la rendeva ancora più irresistibilmente attraente.

E Sita guardò Rama; e appena lo vide il suo cuore cominciò a battere impetuosamente. Il principe era meraviglioso: aveva gli occhi simili ai petali dei fiori di loto, i capelli neri e lunghi che gli scendevano lungo le spalle, e ogni sua fattezza era un inno alla bellezza. Come i loro sguardi si incontrarono l’amore eterno che li legava si risvegliò e inondò i loro cuori. Vishnu e Lakshmi si incontravano in un’altra circostanza, in un’altra situazione, uniti dallo scopo divino che era il fine di quella loro incarnazione. Castamente, Sita abbassò la testa e arrossì. In cuor suo sperò che Rama desiderasse provare a sollevare l’arco e che ci riuscisse. Rama contemplava colei che era la sua compagna eterna e non riusciva a distogliere lo sguardo.

“Se me lo concedi vorrei vedere il sacro arco di Shiva,” disse poi.

Janaka ordinò che l’arco fosse portato nel salone. Dopo poco, l’arma fu introdotta su un gigantesco carro tirato da dieci uomini.

“Guarda, o figlio di Dasaratha,” proclamò Janaka. “Io ti ripeto l’offerta che ho già annunciato a tanti prima di te: se riuscirai a impugnarlo e a fissare la corda, io ti darò mia figlia Sita in sposa.”

Rama cercò con lo sguardo il permesso di Visvamitra, il quale sorridendo mosse la testa affermativamente. Il principe si avvicinò all’arco, lo guardò, lo toccò, gli offrì rispettosi omaggi e poi lo afferrò. Tutti trattennero il respiro. E tra lo stupore di tutti, Rama lo sollevò senza alcuno sforzo apparente. Nei pianeti celesti Shiva danzò in estasi e tutti i Deva manifestarono la loro gioia. Poi, per mettergli la corda, lo piegò in modo così energico che con un boato assordante l’arco si spezzò in due. Tutti persero coscienza, eccetto i saggi presenti, Janaka, Rama e Laksmana.

Con grande felicità il re concesse Sita a Rama.

Il matrimonio di Sita e Rama

La notizia dell’accaduto arrivò presto ad Ayodhya. Dasaratha fu felice che suo figlio sposasse la bellissima e casta Sita, famosa in tutto il mondo per le sue qualità, e fu anche felice di allearsi con un re potente e virtuoso come Janaka. Con le sue mogli, i suoi figli, i suoi ministri e con molti soldati, Dasaratha partì per Mithila.

Così Rama sposò Sita, e Laksmana sposò la sorella di Sita. Janaka aveva un fratello di nome Kusadhvaja, il quale aveva due figlie. Bharata e Satrughna si unirono alle due figlie di Kusadhvaja.

Dopo che il matrimonio fu celebrato, Dasaratha salutò calorosamente Janaka e ripartì con il suo seguito, i suoi figli e le loro rispettive spose.

 

 

Questa è una sezione del libro “Il Ramayana”, in lingua italiana.

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